Giovanni leto antologia Home / Biografia
/ Bibliografia / Esposizioni
/ Antologia / Opere
/ Album / Contatti |
||
Giorgio Di Genova Geologia
dell’altrove |
||
Nel
nostro secolo il concetto di pittura ha subito una vera e propria rivoluzione,
soprattutto per quella sostanziale modificazione attuata in corpore picturae
nel corso del tempo a partire dal 1912, cioè da quando Braque prima, Picasso
e Gris poi inserirono nei loro quadri materiali oggettivi con funzione
pittorica.(1) Dal momento di questa irruzione resa possibile dalla volontà
dei cubisti di sganciare la pittura dal tradizionale dominio dell’imitazione
di ciò che si vede (imitazione che è a tutto scapito di ciò che si sa), per
appunto superare la sfera sensoriale a vantaggio di quella mentale,(2) l’arte
s’è fatta onnivora, come ho già avuto modo di indicare altrove. (3) Tuttavia,
affinché tale onnivoracità dell’arte contemporanea potesse determinarsi,
c’era bisogno di propedeutici scardinamenti nei confronti della Weltanschauung
della pittura cosi come s’era consolidata nei secoli precedenti. Era, cioè,
necessario “rompere” la concezione illusionistica dello spazio pittorico,
sottrarre il disegno alle regole della prospettiva e usare il colore non più
in direzione imitativa, ma soltanto simbolica, secondo i dettami di quella
necessità di restituire ritmi formali o plastici propri alla personale
inventiva e perciò non più condizionati dall’imperativo della mimesi. tale
rivoluzione è stata avviata dal cubismo, che a fatto compiere alla pittura il
definitivo passo verso il realismo pensato, per dirla con Léger, il quale lo
contrapponeva al realismo visivo.(4) Era logico, quindi, che l’ontogenesi
della suddetta onnivoracità avesse (probabilmente in seguito suggestioni
dovute al manifesto tecnico della scultura futurista di Boccioni, non a caso
pubblicato nella primavera del 1912 con la data dell’11 aprile) la sua culla
nel cubismo, primo tra le avanguardie artistiche a rivolgere l’attenzione
alla mentalizzazione del linguaggio pittorico.(5) Ben presto, però,
all’interno della mentalizzazione stessa del linguaggio è cresciuta l’istanza
di fisicità, che ha fatto inglobare alla pittura i più diversi materiali
(basti pensare alla pittura Merz di Schwitters), cosicché dal collage s’è passati
all’assemblage, che ha finito con il coinvolgere ampiamente anche la
scultura. Pertanto oggi si possono realizzare quadri con i più disparati
materiali, come ormai la storia dell’arte contemporanea sta ad attestare. In
Italia, soprattutto dall’immediato dopoguerra, s’è ormai consolidata una
tradizione pittorica au delà de la peinture, che per lo più affonda le radici
nell’humus dissodato, oltrechè dalle avanguardie artistiche, dalle muffe, dai
sacchi, dalle plastiche, dai legni e dai ferri di Burri e in qualche caso dai
dècollages di manifesti attuati da Rotella quasi in parallelo ai manifesti
dèchirès del francese Hains. L’opera
di Giovanni Leto s’inserisce a pieno diritto in questa tradizione a partire
dal 1982. E’,
infatti, il 1982 l’anno di volta della ricerca di Leto. E’ in esso che, dopo
esperienze di pittura evocativa (La notte, 1963; Composizione, 1965), con
qualche tentazione meccanomorfa (Paesaggio urbano, 1964), esperienze poi
confluite in una liricizzazione dapprima non immemore di certe espressioni
proprie all’arte autre (Parete, 1968) e in seguito rivolta alla definizione
di una nuova spazialità, nonché di nuovi esiti di luce (Tracce, 1973),
comincia a delinearsi l’interesse per il collage e per gli “elementi in superficie”, come
dichiara appunto il titolo di una sua opera del 1982. Elementi
in superficie è la prima epifania del materiale au delà de la peinture
all’interno del “campo” pittorico, un “campo” ormai reso quasi neutro
dall’estremizzazione di quella nuova spazialità e di quella nuova luce a
lungo indagata negli anni precedenti. Gli “elementi” in questione non sono
altro che la fisicizzazione di quelle nuances che compaiono nel citato Tracce
e di quelle concrezioni pittoriche che hanno ruolo protagonistico in Forme
del Fantastico del 1980. In ambedue i dipinti sono tre, e perciò non mi
sembra affatto un caso che gli inserti oggettuali di Elementi in superficie
siano appunto tre. I
collages del 1982 mi paiono significativi, al di là del loro ricadimento di
fisicità pittorica, per altri motivi ancora. Si prendano, ad esempio, Memorie
al presente e Come segni di un diario. In ambedue è presente quell’orizzonte
che costituirà il leit-motiv della successiva produzione di Leto, ma che
tuttavia non è assoluta novità, perché esso, e per di più sul fondo nero come
nelle due opere testé citate,già compare in un’opera
realizzata vent’anni prima, La notte. Ecco, La notte, dove la mescolanza di
terre e colori all’olio già la diceva lunga sull’insopprimibile bisogno di
dare materia alla pittura, o se si preferisce, di “materializzarla”, è
un’opera che dichiara esplicitamente l’interesse di Leto per gli effetti
notturni, i quali costituiscono una delle due costanti polarità della sua
ricerca, rimanendo l’altra ovviamente la luce diurna. Tra questi due poli,
anzi, a ben guardare, oscilla l’immaginazione poetica di Leto. Così
nel suo discorso pittorico ritroviamo quell’alternanza di giorno e di notte
che viviamo nella realtà. E anche questa alternanza era già in nuce nella
produzione degli anni Sessanta, con ribaltamenti cromatici abbastanza sintomatici.(6) E volendo, Memorie al presente e Come
segni di un diario riuniscono, colle loro metà chiare e le loro metà scure,
il giorno e la notte in un’unica soluzione. Ma queste due opere sono
filologicamente importanti perché in esse comincia a precisarsi, seppure
ancora sul piano, l’assemblaggio materico, per un verso, e per altro verso la
bipartizione del quadro in terreno-paesaggio e fondo-cielo. Le
basi per il landscape oggettuale sono qui gettate, con una forte pressione
della memoria e del racconto emblematicamente memorialistico, attuato per
frammenti, lacerti, scintille vagolanti e coaguli del ricordo, che poi
trapasseranno dall’immagine e dal collagismo planare alla astrazione
stratificata e al bassorilievo materico di carta e panni rielaborati.
Probabilmente in queste due opere collagistiche non è del tutto assente
qualche inconsapevole suggestione dei Sacchi di Burri rimediati attraverso i
décollages di Rotella, ed è forse per tale ragione che Giovanni Leto ha
abbandonato questa esperienza, tentando di recuperare l’aura lirica di Parete
(1968) e di Tracce (1973), ma con la volontà di salvaguardare le conquiste
già fatte: soprattutto la bipartizione orizzontale dell’opera, che si fa
accuratamente rettilinea, tuttavia senza annullare il rapporto cromatico
(zona chiara sotto, zona scura sopra), né le immagini proiettive sospese
nello spazio. Si vedano, a tal riguardo, due opere del 1984, quali La memoria
in agguato e Macchie di umido, ora nella collezione Guarino. Ebbene,
in esse la suddivisione in zone, una superiore più scura e una inferiore più
chiara, anche se attenuate nei contrasti al punto da essere da misteriose
penombre, non solo viene scandita da una retta, ma si amplifica nei rapporti zonali per la
verticalità del formato. Contemporaneamente i “cieli” di questi paesaggi
mentalizzati fino al limite estremo dell’astrazione ripropongono immagini
fantasticate, più precisate in La memoria in agguato (cavallino bianco,
angelo cadente) e più intuite in Macchie di umido (cavallo bianco con
cavaliere, suo contraltare scuro che per la sua piccola dimensione, finisce
ad un insetto intravisto in una macchia di Rorschach). Anche
se Macchie di umido sembra rifarsi alle teorie che dall’antica Grecia a
Leonardo hanno investito le macchie di stimoli per l’immaginazione visiva,
l’opera mi sembra denunciare un disagio di Leto nei confronti della
spazialità pittorica sino ad allora sperimentata. Non è, perciò, un caso che
subito dopo il pittore arrivi a quell’estrapolazione della tela dal telaio,
caricandolo contemporaneamente di “pittura” in proprio (Composizione 1,
1984-85). Non si tratta di una rottura, ma di un conseguente progresso. La
lateralizzazione della tela dipinta nei confronti del telaio arricchito di colore
è allo stesso tempo la lateralizzazione del telaio-supporto nei confronti
della tela: una bipartizione “altra” nell’ambito della fisicità dell’opera,
ma anche una nuova definizione di spazialità, che, da un lato, contraddice
quella tradizionale del quadro (tela estrapolata) e, dall’altro lato,
acquisisce quella del reale (vuoto all’interno del telaio). La finzione della
pittura e la verità dello spazio reale si confrontano, entrando in palese
frizione. Nel mettere a nudo lo spazio finto della tela, Leto contemporaneamente
mette tra virgolette (nella fattispecie, pittoriche) lo spazi reale, che
viene così incorniciato dalla pittura. Il
ribaltamento spazio-pittura dovette lì per lì soddisfarlo, se Leto l’ha poi
addirittura duplicato in Composizione, realizzata a ridosso di Composizione
1. Ma il dissidio spazio-fisicità permaneva, in quanto, avvertendo sempre più
la pittura come presenza, Leto sentiva lo spazio reale come assenza e quindi
negazione della pittura. Il
tentativo di portare a soluzione tale dissidio si concretizza in Corda del
1985. È quest’opera una sorta di ricerca della centralità dello
spazio-pittura fisicizzata. Ormai al telaio ricoperto di stoffe colorate e di
colore s’è sostituita la corda, che supera la costrittiva e ripetitiva
rigidità del telaio. La duttilità della corda permette a Leto di attuare la
circolarità del quadro, che, ancorché spiralica, si presenta come l’esatto
opposto della quadratura del cerchio, sempre inseguita e mai trovata. |
La memoria in agguato, 1984 Carte e pigmenti su tela Collezione
Guarino Macchie
di umido, 1984 Carte
e pigmenti su tela Collezione
Guarino Composizione
1, 1984 - 85 Tela,
legno, carta e pigmenti Orizzonte
bianco, 1985 Carta,
tela e pigmenti, cm. 60x70 Catastrofe, 1987 Tecnica mista, cm. 120x150 La grande madre, 1988 |
|
Ma Corda contiene in
sé un elemento pieno di futuro, molto più della serpentina di corda contrapposta
a coagulazioni di pigmenti colorati e neri presenti in Ritmi (1985), che a
ben guardare è una verticalizzazione in versione fisicizzata del groviglio
pittorico che attraversa orizzontalmente composizione del 1965. Il rovello
dello spazio come assenza, questa volta nell’ambito del pittorico e non più
del reale, fa riemergere l’interesse del nostro per la notte. Nascono cosi
Notti palermitane 1 e Notti palermitane 2, ambedue opere del 1985, nelle
quali c’è un tentativo di creare un fondo come quinta, dietro cui s’intravede
del bianco allusivo alla parete, e nel contempo di trasformare le
coagulazioni di pigmenti colorati dialoganti con pezzi di corda in veri e
propri cumuli di stoffa e carta che s’ergono, ancora molto timidamente, sulle
notturne quinte nere a mo’ di montagnole.(7) Il 1985, comunque, è
l’anno delle progressive messe a punto. Dall’esperienza di Corda, Leto, oltre
alla malleabilità del materiale usato già con sovrapposizioni di carta, ha
tratto l’indicazione fondamentale della straordinaria suggestione
plastico-cromatica delle stratificazioni, già in nuce nell’adesione delle
spirali della corda. È il momento dell’intuizione della possibilità di creare
una spazialità altra, senza dover rinunciare all’amore per il colore e
all’esigenza per una pittura di impositiva fisicità. L’intuizione dapprima si
concretizza nello spazio — in questo caso delimitato dai telai dipinti e
fasciati che cosi diventano definitivamente cornici — come irruzioni di
stratificazioni in carta e/o stoffa, stratificazioni che si orizzontalizzano
sul fondo dipinto, finendo per determinare vedute paesistiche insieme fisiche
e metafisiche, allusive di un mondo deserto e misterioso, che si può definire
tranquillamente mondo dell’Altrove. In questo sconosciuto pianeta pittorico,
tuttavia, il giorno e la notte continuano ad alternarsi, come attestano
Orizzonte con cornice dipinta e fasciata (1985) e Notturno blu (1985); mentre
l’altro tempo, quello epocale, ha accumulato depositi su depositi, che hanno
formato paesaggi riccamente variati. Nell’addentrarsi in questo mondo
dell’Altrove Leto ha subito avvertito il bisogno di liberarsi della finzione
pittorica come finestra ritagliata sulla parete, secondo la concezione di
L.B. Alberti, e di conseguenza ha eliminato le cornici dipinte e fasciate. E
immediatamente ciò che l’ha affascinato è la ricostruzione, o meglio lo
scandaglio della geologia di questo mondo dell’Altrove, che in metafora
rispecchia il nostro mondo, sempre più in pericolo di divenire una sterminata
pattumiera e quindi restare deserto di qualsiasi forma di vita. Nascono cosi,
nel 1985 Pagine gialle, Orizzonte trasparente, Orizzonte bianco, Orizzonte
alfa, Orizzonte gamma, e altri Orizzonti, tutti fascinosi landscapes
dell’immaginato pianeta dell’Altrove di Giovanni Leto, che certosinamente ha
intessuto su tela o su legno, usati come supporti, “salsicciotti” di
cartapesta, talvolta misti a stoffe e in un caso a plexiglas (Orizzonte
trasparente), ma sempre disposti l’uno sull’altro a formare serrate
stratificazioni di una geologia altrettanto immaginaria. È con questo
discorso che l’artista siciliano s’è imposto all’attenzione della critica
nazionale.(8) L’onnivoracità propria alla creatività “geologica” di Leto s’è
rivolta prevalentemente alla carta, ora quella dei giornali, ora quella dei
rotocalchi, ora quella degli elenchi telefonici (Pagine gialle), e persino ai
manifesti, con non pochi inserimenti di stoffe colorate per movimentare
pittoricamente le stratificazioni geologiche di queste “terre di nessuno”,
come sono state pertinentemente definite da Marcello Venturoli.(9) In questi paesaggi
dell’assenza Leto ha individuato il topos di quel meccanismo coercitivo che
sta alla base dell’attività creativa e che la psicoanalisi ha definito
coazione a ripetere.(10) Da questa matrice nascono
gli orizzonti della sua produzione, che ora, come alte maree, s’alzano
improvvisamente fin quasi a lambire il lato alto del quadro, e specialmente
quando il pendolo dell’immaginazione di Leto batte le ore della notte
(Orizzonte alfa, 1985, Orizzonte del castoro, 1986). Ma sin dal 1986
l’inquietudine spaziale del pittore di Monreale rimette in discussione,
all’interno della stessa coazione a ripetere, la spazialità e la fisicità
stessa di questo modo di far pittura. Ecco, allora, che nascono Rombo nel
1986 e Piccolo rombo nel 1987, Onde, Terre del fantastico e Crollo, tutte
opere del 1987, in cui c’è un tentativo di trasporre il discorso dalla terra
al mare (e marina vera e propria è Onde), c’è lo scarto di Terre del
fantastico, opera che nella sua maggiore adesione alle crepe di un terreno
inaridito rischia di diventare un parallelo dei Cretti di Burri, e c’è infine l’impasto
sedimentato di materiali eterogenei, troppo memore di certe esperienze
informali, quelle più matereologiche, alla Dubuffet, per intenderci. Se Terre del
fantastico prepara il “terreno” a Sentieri orfani 2 (1987), Crollo mi sembra
fare altrettanto al già citato Senza titolo dello stesso anno. In quest’opera
c’è la prima avvisaglia di un’animazione pluridirezionale delle
stratificazioni. Pertanto, dopo opere per così dire più canoniche (e mi riferisco a
Orizzonte nero, 1987, e a Orizzonte
incenerito, 1987-88) dove tuttavia si evidenzia una volontà di ottenere nuove
soluzioni cromatiche, addirittura serotine per quanto attiene a Orizzonte
incenerito, Leto si abbandona a nuovi tentativi. Sembrerebbe che abbia paura
che la coazione a ripetere faccia perdere pregnanza al suo discorso. E’ un timore, questo,
che assale spesso gli artisti (specialmente quelli abituati a soffrire nelle
loro ricerche), quando raggiungono un alto risultato di fisionomizzazione e
avvertono che ciò che fanno è troppo poco sofferto. Essi temono, insomma, che
la facilità con cui riescono a realizzare variazioni sul tema messo a fuoco
in lunghi anni di faticose ricerche possa impantanarsi nella cifra meccanica,
nella maniera, come in effetti accade a chi non è profondamente monodico al
punto di riconoscersi appieno in un unico soggetto, o modo espressivo. Catastrofe (1987-88),
vera e propria filiazione di Crollo, e il contemporaneo Sentieri orfani 4
sono frutto di questo timore. Le rotture morfologiche e le intrusioni di
elementi piatti con forti propensioni geometriche, che contraddicono il
fermento materico del bassorilievo pittorico, sono un atto di volontà
esorcistica, più che un dettato della sensibilità estetica. Che in queste
opere qualcosa non funzionasse se n’è accorto lo stesso autore. E infatti ha
immediatamente smesso di proseguire su quella strada, lastricata di
catastrofici sentieri orfani, per parafrasare i titoli delle due opere in
questione, titoli, tutto sommato, davvero rivelatori, quasi inconsciamente
Leto avesse inteso restituire attraverso essi le difficoltà del momento in
cui furono realizzate le opere. Tale sentimento della catastrofe e del crollo
deve avere attizzato in Leto una sorta di ribollimento interiore che s’è
ripercorso sulla struttura della sua ottica “paesaggistica”. Cosi, dalle
stratificazioni tettoniche geologiche egli è passato ai sommovimenti del
mare, resi naturalmente attraverso media espressivi conquistati nel 1985. E
nasce la serie riferita alla Cresta d’onda, nella quale viene recuperata la
precedente esperienza di Corda sulla scorta delle successive esperienze
attuate negli Orizzonti. La circolarità di Corda in queste metafore delle
onde è come impazzita per quell’intrico dei cordoni cartacei che arriva
addirittura a scansioni intestinali. I movimenti peristaltici, per così dire,
delle onde assimilano pertanto la consolidata fisicità del “costruire” di
Leto al visceralismo, quasi l’artista volesse trasferire il suo spiccato
senso geologico dal fuori al dentro, cioè dallo spazio che è esterno all’uomo
allo spazio che è interno ad esso. Nella serie in
questione forte è il ritorno del rimosso informale, quello appunto di più
impositiva organicità nell’ambito del materico oggettualizzato, di cui uno
dei massimi rappresentanti fu nelle ultime sue opere Bernard Requichot, che,
com’è noto, morì nel 1961 a soli 32 anni. All’epoca parecchi pittori
spremevano il tubetto del colore direttamente sulla tela. In piena stagione
informale Requichot, a suo modo, materializzò nello spazio questa forma di
deiezione pittorica. Ebbene, qualcosa di simile sembra oggi fare Leto con le
sue serpentine di carta nelle quattro prove intitolate Cresta d’onda, nelle
quali si nota un’insolita esuberanza cromatica degli sfondi e in qualche caso
delle aggrovigliate masse tubolari (Cresta d’onda n. 1, 1988). La stesura
monocromatica e compatta dei fondi per contrasto allude a una trasparenza atmosferica,
una trasparenza ovviamente del tutto astratta in contrapposizione alla
fisicità prepotente del convulsivo sgomitolarsi della massa cartacea. Siamo agli antipodi
di quel tentativo dell’anno precedente (Onde) di rappresentare il mare. Lì la
trasparenza era tentata in corpore chartae. Se si considera che Leto aveva
tentato di ottenere la trasparenza sin dal 1985 in Orizzonte trasparente, nel
quale aveva usato il plexiglas, allora va riconosciuto che non è del tutto
trascurabile questo aspetto della sua ricerca, di tanto in tanto
riemergente.(11) Ma l’uso del colore in molti così perentori, anche se
giustificabili per le loro finalità organiche,(12) ha subito creato problemi
di spazio, che non si sono risolti neanche con l’attenuazione della cromia
delle masse di carta di Cresta d’onda n. 2 e Cresta d’onda n. 3. Già, perché tutto il
discorso di Giovanni Leto, com’è logico sia per un paesaggista, anche se
eterodosso come lui, è sempre questione di spazio, e sull’invenzione di “uno”
spazio si fonda. Ma lo spazio, si sa, è difficile da essere dominato nelle
due dimensioni proprie al quadro, specie quando l’istanza della fisicità è
avvertita tanto perentoriamente, com’è per Leto. Il quale deve aver pensato
che, per uscire dall’impasse della costante paura di cadere nel ripetitivo
insignificante (in fondo la serie Cresta d’onda non è che una variante sul
tema degli Orizzonti), può essere utile abbandonarsi a quella vertigine
materica che era cominciata a montare con i ribollimenti dello sgomitolarsi
che va da Cresta d’onda n. 1 a Cresta d’onda n. 4, al fine di rompere le
dighe che impedivano al continuum materico di dilagare su tutta la
superficie, fino a toccare quel lato del quadro già agognato in altre
precedenti opere, cioè fino a raggiungere l’horror vacui. Tale abbandono si
comincia a realizzare nelle opere succedanee alla serie suddetta, cosicché la
Cresta d’onda si fa subito Lago di carta. Nelle opere che fanno
montare fino all’all over il fitto tessuto dei meandri delle “corde” di carta
la metafora acquatica continua, con le sole eccezioni di Scrimolo rosso e di Tracce
rosse pagine rosa, il primo, come già notato, riedizione nell’ambito
dell’horror vacui della bipartizione verticale, ed il secondo, sorta di
riequilibramento della vertigine labirintica di Lago di carta. Il rosso,
tuttavia, continua a persistere come eco della precedente fase ricca di
valenze organiche. Questa presenza di tracce di colore si attesta al centro
delle labirintiche movenze della superficie determinate dalla sapiente
agglomerazione dei tubolari in carta. Sembrerebbe che Leto, in tanto vorticar
multidirezionale dei suoi labirintici bassorilievi, cerchi ancora una volta,
dopo l’esperienza di Corda, una centralità utile a farlo orientare
nuovamente. L’uso del vinavil per bloccare l’insieme delle tessiture ottenute
con queste iperboli in carta del filo di lana finisce con l’imbalsamare, per
così dire, l’opera con questa specie di invetriatura trasparente (ancora un
omaggio alla trasparenza), determinata dalla colla stesa in superficie come
quella vernicetta che un tempo si usava spennellare sui dipinti ad olio.(13) Leto deve aver
percepito all’istante questo risultato di imbalsamante invetriatura che
finiva col congelare la pregnanza fisica dei suoi lavori. Infatti ha intitolato
Glaciazione 1 e Glaciazione 2 due dei suoi all over, senza tradire
la metafora acquatica di base, dato che le glaciazioni hanno sempre a che
fare con l’acqua o con i suoi sostituti. L’inquietudine
spaziale e inventiva, o, per meglio dire, l’irrequietezza plastico-pittorica
di Giovanni Leto con queste opere sembrerebbe essersi acquietata, avendo
raggiunto una dimensione di eternità, sempre per metafora. La geologia
dell’Altrove ha svelato i suoi ghiacciai eterni. Ma non c’è da fidarsi di uno
spirito perennemente insoddisfatto dei traguardi raggiunti com’è quello di
Leto. E’ per questo che mi aspetto quanto prima il disgelo, con esiti che
solo l’immaginazione del nostro pittore siciliano può prevedere. Anzi,
probabilmente, già sta elaborando. Note 1 Mi riferisco a
Natura morta con fruttiera e bicchiere, in cui Braque fece per la prima volta
uso del papier collè per indicare il cassetto e il piano di un tavolo di
legno, a Natura morta con sedia impagliata, in cui Ricasso inserì un pezzo di
tela cerata con sopra stampata la trama della paglia intrecciata, ed a Il
lavabo, in cui Gris incollò addirittura un pezzo di specchio nella parte
superiore dell’opera. Tutt’e tre le opere sono state realizzate negli ultimi
mesi del 1912. 2 Per i cubisti si
trattava di evitare così la finzione ottica, basata appunto sulle false
restituzioni ottiche delle immagini dipinte. Proprio nel 1912 Olivier
Hourcade, riferendosi ai cubisti, osservava: “L’apparenza esteriore delle
cose è transeunte, sfuggente e RELATIVA. Perciò si deve scoprire LA VERITA’,
e smettere di fare olocausti ai graziosi effetti della prospettiva o della
mezzaluce… Si deve cercare la verità e desistere dagli olocausti alle banali
illusioni ottiche […]. Il pittore, quando deve disegnare una tazza rotonda,
sa benissimo che l’orlo della tazza è una circonferenza. Quando disegna
un’ellisse, perciò, non è sincero, sta facendo una concessione alle menzogne
dell’ottica e della prospettiva, sta pronunciando una menzogna
deliberatamente” (cfr. La tendance de la peinture contemporaine, in “Revue de
France et des Pays”, Parigi, febbraio 1912). 3 Cfr. il mio testo
Quando la carta da supporto si fa protagonista, in cat. Fabriano carte 1986: Dimensione collage, Fabriano, Palazzo del Buon Gesù, 21
dicembre 1986 - 31 gennaio 1987. Edizioni Bora, Bologna, 1986, pp. 42-45. 4 Cfr. F. Lèger, Les
origines de la peinture et sa valeur reprèsentative, in “Montjoiel”, nn. 8 e
9/10, Parigi, 29 maggio 1913, p. 7 e 14-29 giugno 1913, pp. 9-10. 5 Nel suo Pensèes et
rè flexions sur la peinture (in “Nord-Sud”, Parigi, 1917) Braque, dopo aver
scritto: “I sensi deformano, la mente forma. Lavorare per perfezionare la
mente. Non c’è certezza alcuna se non in ciò che concepisce la mente”; “ Un pittore che tenta di fare un cerchio farebbe solo un
anello. Forse la sua vista può soddisfarlo ma egli avrà dei dubbi. Il
compasso gli ridarà la sua certezza. Anche i papiers collès nei miei disegni
mi hanno dato una specie di certezza” e “Il trompe-l’oeil è dovuto a un
evento aneddotico che produce il suo effetto attraverso la semplicità dei
fatti”, asseriva: “I papiers collès, l’imitazione del legno – e altri
elementi della medesima natura – da me usati in certi disegni, producono
anch’essi il loro effetto attraverso la semplicità dei fatti, ed è questo che
ha indotto la gente a confonderli con il trompe-l’oeil , di cui essi sono
esattamente l’opposto. Anche loro sono semplici fatti, ma creati dalla mente
e tali da costituire una delle giustificazioni a una nuova figurazione nello
spazio.” 6 Tanto per rimanere
nell’ambito delle opere citate, La notte (1963) e Paesaggio urbano (1964) mi
pare evidenzino tali ribaltamenti. Infatti, nel secondo dipinto il nero, che
era cielo nel primo, diviene groviglio paesistico e, viceversa, i toni
terrosi e bruni, che nel primo costituivano il paesaggio, in Paesaggio urbano
si fanno cielo. 7 Volendo, in Notte
palermitane 2 si riscontra un residuo della già considerata lateralizzazione
del telaio in quelle stecche nere che serrano la tela ai due lati, prendendo
di essa il colore notturno e crescendo in basso fino a creare una specie di
piedini, quasi l’opera anziché destinata alla parete dovesse essere poggiata
in terra. Va, inoltre, notato che in quest’opera la bipartizione si
verticalizza, così com’era accaduto in Ritmi . Del
resto, Leto nella sua accanita ricerca di risolvere il rovello spaziale
insiste ancora sulla verticale, come dimostra Frammento della notte del 1985.
Questa tendenza al verticale e alla conseguente bipartizione verticalizzata
riaffiorerà ogni qualvolta il pittore siciliano si sentirà a disaggio nella
sua ottica paesistica orizzontale: si vedano, al riguardo, opere come Pozzo e
Senza titolo del 1987, nonché Scrimolo rosso del 1988, tanto per fare alcuni
esempi. 8 Ricordo ancora la
sorpresa avuta da me e da altri colleghi di fronte alle tre opere di Leto
esposte nello stand di Ezio Pagano all’Expoart di Bari nel 1985. E la
sorpresa fu tanto maggiore in quanto a tutti noi Giovanni Leto era del tutto
sconosciuto. 9 Cfr. cat. della personale tenuta da Leto alla Galleria Hobelix di
Messina dal 5 al 18 ottobre 1985. Venturoli nel suo testo di presentazione
definisce Leto ”un grande ordinatore di rinfuse, un
felice architetto di discariche”. 10 La coazione a
ripetere (Wiederholungszwang nella terminologia freudiana) è un comportamento
tipico dell’inconscio, derivante dagli impulsi istintivi, che, come è noto,
per natura determinano automatismi di ripetizione. Ora, essendo
nell’inconscio che l’ontogenesi della creatività affonda le sue radici, è
chiaro che anche l’arte non sfugge ai dettami della coazione a ripetere, come
numerosi artisti stanno a testimoniare, e alcuni (per esempio Mondrian,
Capogrossi, Albers, Morandi, Warhol, Opalka) più manifestamente di altri. 11 Ovviamente esso è
da collegare con quel sostrato di lirismo già espresso nel passato, tra il
1968 ed il 1973. Il fatto che tale sostrato periodicamente reclami, anche
dopo la svolta materica del 1985, i suoi diritti come trasparenza porterebbe
a pensare che, al di là dei risvolti eidetici, ci sia una sorta di
trasposizione di tecniche pittoriche perdute con i nuovi modi espressivi. Per
chiarire, la velatura pittorica non poteva più essere praticata dopo il 1985,
essendo il discorso principalmente basato sulla fisicità. Allora i tentativi
di restituire trasparenza attraverso cartapesta, pigmenti e plexiglas
potrebbero essere interpretati anche, e addirittura, come “velature”
materiche. 12 Alla luce
dell’ammasso viscerale insanguinato di Cresta d’onda n. 1 non si può fare a meno di
interpretare come macchie ematiche i rossi che appaiono nelle altre tre opere
della medesima serie. 13 Era un’operazione
di rifinitura e ritocco che i pittori attuavano in genere il giorno avanti a
quello dell’inaugurazione, sui quadri già appesi. Da questa usanza è derivato
il termine, ancor oggi in uso, di vernissage. Bibl.: Giorgio Di Genova (a
cura di), Giovanni Leto - Geologia
dell’Altrove, ed. Mazzotta, Milano, 1988 |
|
|