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Marcello
Palminteri Le inquiete morfologie
di Giovanni Leto |
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Quella di Giovanni
Leto è una affermazione pittorica stratificata di tensioni, fratture, deflagrazioni:
configurazioni compositive legate ad un fare dinamico e sicuro eppure mai
azione automatica, quanto “gesto” che dà vita ad una premonizione della forma
che matura fluidamente come proliferante entità organica. Tracce, grumi,
segmenti cartacei, pagine di giornali attorcigliati (e, più recentemente,
pagine stese, “strappi” di partiture) sono come reperti di un racconto
interrotto, volto a stimolare ambiguità percettive sostenute da una
molteplicità di orizzonti che obbliga lo sguardo a vagabondare sull’opera,
quasi si volesse trovare un possibile “centro”, un punto che possa
determinare una rassicurante lettura prospettica. Probabilmente questo
spaesamento visivo sposta ogni indizio fisico, tangibile, nel confine labile
della metafisica: la mutazione della materia, la contaminazione del colore,
ci indirizza verso territori lontani, evocazioni spaziali appartenenti ad un
altrove geologico dalle inedite “Morfologie”, come suggerisce il
titolo della bella mostra ospitata a Casteldaccia presso Chimù
Handesign L’attuale produzione
di Giovanni Leto, come abbiamo potuto osservare nella recente mostra
antologica tenutasi presso il Museo d’Arte Contemporanea “Renato Guttuso” di
Bagheria (curata da Enrico Crispolti), tende a una singolare scarnificazione,
a un “impoverimento” del linguaggio che corrisponde ad una intensificazione
del moto. Come fosse il gesto a creare lo spazio, portandoselo appresso,
anzi, reinventandolo radicalmente. Non siamo mai di fronte ad una
“costruzione” precisa, di architettonico richiamo: il procedere
dell’artista, anche nei momenti di maggiore fisicità, è sempre evocativo.
Propone un’idea di “luogo”, senza resistenza; un territorio sempre più
rarefatto, precario, immateriale. La percezione rapida
degli oggetti, apparentemente sommaria nella loro posizione, ritrova
configurazione più netta allorché uno schema di orizzontalità accentuata si
riappropria della tridimensionalità che gli appartiene; e questa
orizzontalità scrive regioni assolutamente bilanciate in cui le intersecazioni
con i tessuti ora diagonali, ora verticali, diventano luogo di sintassi.
Qualsiasi oggetto è una dimensione a sé stante, eppure, comunicante: i grumi
cartacei, di colore, le incrostazioni materiche, si disgregano creando
rapporti formali e spaziali che sono territorio di cadenze e pesi, di
attrazioni e derive. Ogni elemento indica uno spazio, ogni riquadro
stabilisce un ordine di sistemi e distanze, di possibili rapporti, input
capaci di generare l’energia per attivare una scena, creare movenze di una fluenza plastica. L’elaborazione, tanto spontanea quanto
calcolata, degli artifici del linguaggio pittorico, rivela la consapevolezza
stilistica di Giovanni Leto, il suo lavoro assiduo di cancellazione, di
riduzione, della materia e del segno. Se prima Leto nutriva
la necessità di saturare la superficie, di creare complessi magmatici di
carta fibrosa, in queste più recenti opere la voglia di frammentarietà prende
il sopravvento, accelera e ispessisce il corso, riduce la scia: da zone
monocrome si sprigiona il vigore di un tracciato, la forza di solchi e
sporgenze in corsa verso un ritaglio di cielo. Allora la massa diventa
traccia, si accampa come il relitto di un naufragio nell’incendio ardente dei
rossi, nelle ferite del nero, nelle nubi del bianco. Forse questi filamenti
sparsi, inquieti nel loro errare, s’interrogano sulla stessa arbitrarietà
dello spazio; lo scarnificarsi dell’opera, il suo configurarsi per tracce,
inizia a indicare qualcosa di consunto, esprime la condizione di qualcosa che
è stato e che non è più. Ecco allora che la superficie diventa il territorio
non già di ciò che accoglie, di quanto è visibile “ora”, ma di ciò che
verosimilmente “è stato”, o avrebbe potuto essere. Marcello Palminteri,
Le inquiete morfologie di Giovanni Leto, in BALARM.it -
E- Magazine di Cultura, Spettacolo e Società, 02/10/2006 |
S.
t. 4,
2004 Carta
e acrilici su tela, cm. 30x35 S.
t..3,
2004 Carta
e acrilici su tela, cm. 30x35 S.
t. 1,
2004 Carta e acrilici su tela, cm. 30x35 |
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